A proposito di: “Il problema del riscaldamento globale” di Freeman Dyson è stato incalzato un vivace scambio di opinioni.
Di seguito pubblichiamo i commenti di William D. Nordhaus (il cui libro, A Question of Balance: Weighing the Options on Global Warming Policies, veniva recensito nell’articolo di Dyson), di altri due lettori e una risposta dello stesso Freeman Dyson.
Non sono del tutto d’accordo con la recensione di Freeman Dyson al mio libro A Question of Balance: Weighing the Options on Global Warming Policies. Questa recensione peraltro ha stimolato l’invio di una vera e propria valanga di lettere che, in egual misura, si lamentavano del mio lavoro o della recensione di Dyson. Questi commenti rappresentano una buona opportunità per riprendere alcuni punti del mio libro che sono all’origine del maggior numero di controversie.
L’economia dei cambiamenti climatici è perfettamente chiara. In pratica ogni attività che preveda direttamente o indirettamente l’utilizzo di combustibili fossili determina l’emissione di diossido di carbonio nell’atmosfera. Il diossido di carbonio si accumula e, con il passare dei decenni, determina il riscaldamento globale oltre a molti altri cambiamenti geofisici potenzialmente dannosi. Le emissioni di diossido di carbonio rappresentano le cosiddette “esternalità”, cioè le conseguenze sociali di cui gli operatori del mercato non tengono conto.
Questa omissione da parte dei mercati dipende dal fatto che la gente non paga i costi attuali e futuri delle proprie azioni. Se in campo economico si volesse proporre un’unica linea di condotta fondamentale bisognerebbe decidere di correggere questa omissione del mercato in modo da assicurarsi che tutte le persone, ovunque e sempre, anche in futuro si confrontino con un prezzo di mercato dell’impiego dei composti del carbonio che tenga conto dei costi sociali delle loro attività. Bisognerebbe che gli operatori economici – migliaia di governi, milioni di aziende, miliardi di persone, per un totale di milioni di miliardi di scelte ogni anno – considerassero la vera spesa legata all’impiego dei combustibili fossili se vogliamo che le loro decisioni su consumi, investimenti e innovazione siano adeguate.
La strategia migliore per rallentare o prevenire il cambiamento climatico è quella di imporre una tassa sulle emissioni di diossido di carbonio (o carbon tax) universale e modulata a livello internazionale che tenga conto del contenuto di carbonio dei combustibili fossili. Per contenuto di carbonio si intende la quantità totale di diossido di carbonio emesso, a esempio, quando utilizziamo 1 kilowattora di energia elettrica o bruciamo 1 gallone di gasolio.
Per comprendere il concetto di carbon tax consideriamo un cittadino americano medio che consuma circa 12.000 kwh di energia elettrica all’anno, spendendo 0,10 dollari per kwh. Se questa energia elettrica derivasse da un combustibile fossile, la quantità consumata genererebbe 3 tonnellate di diossido di carbonio.
Supponiamo che la tassa sulle emissioni di diossido di carbonio sia di 30 dollari per tonnellata, il costo annuale dell’energia elettrica ricavata dal petrolio salirebbe in questo caso da 1.200 dollari a 1.290. Per contro, i costi dell’energia nucleare o dell’energia eolica non sarebbero influenzati da una carbon tax, perché queste forme di energia non prevedono l’uso di combustibili fossili.
Aumentare il costo dei combustibili fossili imponendo una tassa sulle emissioni di diossido di carbonio avrebbe principalmente lo scopo di promuovere forti incentivi alla riduzione di tali emissioni. Questo scopo verrebbe raggiunto mediante quattro diversi meccanismi.
Primo, la carbon tax indicherebbe ai consumatori quali beni e servizi producono elevate emissioni di diossido di carbonio e dovrebbero dunque essere utilizzati meno frequentemente.
Secondo, segnalerebbe ai produttori quali forme di energia utilizzano più composti del carbonio (come l’elettricità ricavata dal carbone) e quali ne usano di meno (come l’elettricità ricavata dall’energia eolica), inducendoli di conseguenza alla scelta di tecnologie a basso uso di combustibili fossili.
Terzo, fornirebbe incentivi agli inventori e agli innovatori per sviluppare e introdurre nuovi prodotti che prevedano un ridotto sfruttamento dei composti del carbonio e processi in grado di sostituire le tecnologie dell’attuale generazione.Infine imponendo un prezzo di mercato alle emissioni di diossido di carbonio si ridurrebbe la quantità di informazione necessaria per raggiungere tutti e tre gli scopi indicati sopra.
I consumatori etici che oggi cercano di ridurre al minimo la propria “impronta carbonica” (la cosiddetta carbon footprint, cioè la quantità di composti del carbonio che utilizzano) possono incontrare serie difficoltà nel compiere un calcolo accurato delle relative emissioni di diossido di carbonio che risultano, a esempio, dallo spostarsi in automobile piuttosto che in aereo.
Con una carbon tax il prezzo di mercato di tutte le attività che prevedono l’impiego di combustibili fossili salirebbe in base al contenuto di composti di carbonio tassati. Molti consumatori continuerebbero a non sapere in che misura il prezzo di mercato è dovuto al contenuto di composti del carbonio, ma potrebbero ugualmente compiere le loro scelte con la certezza di pagare anche il costo sociale per i combustibili fossili di cui fanno uso.Qualcuno potrebbe sostenere che una tassa sulle emissioni di diossido di carbonio è soltanto un altro triste esempio della filosofia economica del “tassa e spendi”.
Questo argomento tuttavia fraintende la logica che sta alla base della stessa economia. Chi oggi utilizza i combustibili fossili sta traendo guadagno da una sorta di sovvenzione, di fatto ingrassandosi alle spalle della collettività globale senza pagare il prezzo reale della propria attività. Una carbon tax determinerebbe un incremento e non una riduzione dell’efficienza economica perché correggerebbe l’implicito sussidio legato all’uso dei combustibili fossili.
Rimane però aperto il principale problema in termini economici: qual è infatti il giusto prezzo da pagare per le emissioni di diossido di carbonio? Attualmente è impossibile (o comunque rovinosamente costoso) prevenire in parte o del tutto il futuro riscaldamento; tuttavia un riscaldamento incontrollato rappresenta una seria minaccia per l’umanità e in generale per i sistemi naturali.
Abbiamo di conseguenza bisogno di trovare un equilibrio tra due obiettivi in competizione: prevenire ulteriori danni al clima globale e mantenere un certo livello di crescita economica evitando rischi catastrofici e senza imporre eccessive privazioni alla gente più povera o alle generazioni future.
La valutazione dei danni al clima globale include non soltanto l’impatto sui prodotti dei mercati come il cibo o il legname ma anche la stima delle perdite dovute all’impatto su parametri svincolati dal mercato. Gli studi più onnicomprensivi dei danni includono fattori diversi come la maggiore frequenza e violenza degli uragani, le conseguenze del cambiamento delle temperature e delle precipitazioni sulla produzione di alimenti, sugli svaghi e le comodità e il peso crescente della diffusione di malattie.
Le stime considerano anche le correzioni dovute al rischio di eventi a bassa probabilità ma con gravi conseguenze come a esempio un cambiamento radicale del clima. Fornire stime attendibili relative a cosí tante conseguenze future rappresenta davvero una sfida notevole, ma è altresí del tutto ragionevole che questi effetti vengano considerati quando si stimano i danni provocati dal cambiamento climatico.
I miei studi in campo economico, riportati in A Question of Balance, suggeriscono che si possa raggiungere un equilibrio imponendo un prezzo alle emissioni di diossido di carbonio compreso tra 30 e 50 dollari per tonnellata, crescente con il passare del tempo. La cifra più bassa corrisponde all’optimum economico in termini di costi-benefici; la cifra più alta prevede un limite grazie al quale le temperature e le concentrazioni di diossido di carbonio dell’atmosfera non dovrebbero superare livelli “di guardia”.
Per gli Stati Uniti una tassa simile corrisponde a circa 50-80 miliardi di dollari di entrate all’anno. Traducendo questo valore in termini di spesa per un cittadino medio, una tassa sulle emissioni di diossido di carbonio di 30 dollari per tonnellata corrisponde a una tassa sul gasolio di circa 7 centesimi al gallone; questo aumento determinerebbe un incremento del prezzo dei combustibili fossili e dei beni dipendenti da essi del 5% circa, un aumento che è significativamente inferiore rispetto a quello sperimentato negli ultimi cinque anni.
Fatte queste premesse, vorrei analizzare due questioni sollevate da Freeman Dyson nella sua recensione e anche in alcune lettere e commenti che ho ricevuto a proposito dell’articolo di Dyson. Primo, il problema del tasso di sconto e, secondo, la questione delle tecnologie a basso costo finalizzate alla riduzione delle emissioni di diossido di carbonio.
Una delle questioni più spinose nell’affrontare il problema del cambiamento climatico riguarda la scelta del giusto tasso di sconto da adottare quando si confrontano i costi attuali e i ricavi futuri. Questo aspetto risulta importante perché, riducendo l’uso dei combustibili fossili, la società deve affrontare oggi il problema dell’abbattimento della spesa necessaria per ridurre le emissioni, anche se la maggior parte dei danni evitati si colloca lontano nel futuro. (Ricordate, come già ho notato, che il concetto di danno è assai ampio e include gli impatti sui mercati, gli aspetti non commerciali e l’impatto ecologico, insieme alle correzioni necessarie per gli eventi ad alto rischio).
Perfino la Stern Review on the Economics of Climate Change elaborata da Lord Stern e caratterizzata da una visione assai pessimistica, ritiene che i danni derivati dal cambiamento climatico nel secolo a venire saranno relativamente limitati, mentre le conseguenze più pesanti si faranno sentire dopo il 2200. Abbiamo di conseguenza bisogno di individuare un tasso di sconto appropriato per equilibrare la necessità attuale di abbattere i costi e quella futura di limitare i danni che si registreranno fra un secolo o ancora più tardi.
Per illustrare il problema rappresentato dalla scelta del tasso di sconto possiamo utilizzare il seguente esempio. Supponiamo che una persona vi proponga un affare sicuro capace di far guadagnare ai vostri discendenti 100 milioni di dollari (corretti secondo l’inflazione) in duecento anni in cambio di un contributo attuale di una certa somma di denaro, pari a x dollari. Se volete, i 100 milioni di dollari di ricavo potrebbero corrispondere alla riduzione dei danni dovuti al cambiamento climatico; in alternativa, potreste immaginare che corrispondano all’acquisto di parte dell’isola di Manhattan.
Qual è la somma più alta che vi sentireste di investire?Una persona che si basi sulla semplice aritmetica potrebbe ragionare nel modo seguente. Io so che il denaro investito grazie agli interessi aumenterà nel tempo. Se scegliessi un tasso del 5%, in 200 anni arriverei al 1.000%, ovvero a una crescita pari a un fattore dieci. Di conseguenza, in base a questi calcoli, per guadagnare 100 milioni di dollari in 200 anni, avrei bisogno oggi di investire 10 milioni di dollari.
In altri termini, ipotizzando che il valore denaro investito nel periodo di tempo considerato cresca di dieci volte, dovrei contribuire all’affare con non più di 10 milioni di dollari oggi. Forse il tasso di interesse potrebbe essere superiore. Se il fondo crescesse di 100 volte rispetto al suo valore iniziale, dovrei contribuire con non più di 1 milione di dollari. Questo potrebbe essere il tipo di ragionamento matematico da fare per stabilire il valore dell’investimento da compiere.
Tuttavia, questo tipo di approccio non è corretto. Il calcolo intuitivo non tiene conto del fatto che in realtà l’interesse è composto, cioè viene calcolato sull’investimento iniziale a cui si devono sommare gli interessi che nel tempo si aggiungono all’importo inizialmente investito. Un consulente finanziario vi spiegherebbe che per calcolare in modo corretto l’investimento da compiere oggi bisogna considerare i 100 milioni di dollari e “scontarli” a partire dal presente usando un appropriato tasso di interesse o tasso di sconto. Il tasso di sconto dovrebbe corrispondere all’importo che potete guadagnare grazie ai vostri investimenti nell’arco di tempo considerato.
Nel nostro esempio inoltre 100 milioni dollari è una cifra corretta in base all’inflazione, ciò significa che verremo pagati in beni futuri. Per questa ragione vogliamo applicare un tasso di sconto sui beni per calcolare il valore dell’investimento da compiere oggi. (Di nuovo ricordate che stiamo utilizzando un metro complessivo per valutare i beni in questa analisi; inoltre i beni il cui valore sta salendo rispetto alla media avranno un tasso di sconto inferiore).
Un tasso di sconto sui beni è il tasso che applicheremmo convertendo il valore dei beni consumati in futuro (corretto in base all’inflazione) nel valore attuale. Il tasso dovrebbe riflettere non soltanto il guadagno implicito negli investimenti sociali ma anche i fattori di rischio: chi ci propone l’affare potrebbe, a esempio, essere una banca privata e non lo Zio Sam, oppure potremmo non avere eredi o, ancora, la parte dell’isola di Manhattan di cui diventeremmo proprietari potrebbe essere sommersa.Basandosi su indagini e proiezioni storiche, si può affermare che il rendimento di un investimento (corretto tenendo conto dell’inflazione) è dell’ordine del 3-6% annuo a seconda del periodo di tempo considerato e del rischio.
Nel mio modello ho scelto un tasso di sconto del 4%. Se applichiamo questo tasso di sconto all’affare significa che l’attuale x che deve essere pagato corrisponde a 39.204 dollari. In duecento anni, dato che l’interesse su questo importo è pagato e composto, si raggiungerebbe la somma di 100 milioni di dollari.
Molte persone sono turbate nel sentirsi proporre una cifra iniziale cosí bassa. Come possiamo preoccuparci cosí poco per il futuro? Non stiamo forse correndo il rischio di truffare le prossime generazioni? La risposta è che non siamo indifferenti al futuro ma possiamo però contare su un’ampia varietà di investimenti produttivi in un’economia caratterizzata da rapida trasformazione tecnologica.
La forza della crescita composta trasforma piccoli investimenti paragonabili a ghiande in gigantesche querce finanziarie nell’arco di un secolo o più. È sempre utile ricordare, pensando all’interesse composto, che con un tasso di interesse monetario del 6%, i famosi 26 dollari pagati per Manhattan nel 1626 sarebbero oggi 120 miliardi di dollari, una cifra approssimativamente uguale al valore dell’intera superficie di questo possedimento immobiliare cosí prezioso.
Qualcuno potrebbe affermare che non è eticamente molto corretto applicare uno sconto al futuro e che dovremmo dunque scegliere un tasso molto basso per calcolare il valore attuale dei beni futuri e dei danni dovuti al cambiamento del clima. Se è vero che in alcune circostanze la scelta di un tasso di sconto basso appare plausibile, questa scelta si rivela peraltro poco applicabile considerando la crescita economica ipotizzata nella maggior parte degli studi sulle conseguenze del cambiamento climatico. La Stern Review, a esempio, ipotizza che il reddito reale pro capite a livello globale salirà dagli attuali 10.000 a circa 130.000 dollari in due secoli.
Allo stesso tempo però sostiene che dovremmo compiere interventi urgenti oggi per ridurre i danni che si osserveranno nel lontano futuro e sceglie pertanto un tasso di sconto vicino allo zero. Certamente esistono buone ragioni per agire rapidamente sul cambiamento climatico, ma non ritengo che la necessità di ridistribuire il reddito attuale a un ricco futuro sia una di queste.
La conseguenza della scelta di un tasso di sconto basso può essere illustrata con una “prova della piega”. Supponiamo che, analizzando il sistema climatico del futuro, gli scienziati scoprano una piega, una lieve imperfezione, dovuta all’attuale cambiamento del clima – forse potrebbe trattarsi di una piccola variazione nelle traiettorie delle correnti oceaniche – in grado di determinare danni pari allo 0,1% dei consumi a partire dal 2200, continuando poi con lo stesso ritmo negli anni seguenti.
Quanto dovrà essere consistente l’investimento oggi per eliminare l’imperfezione che incomincerà ad avere effetto soltanto tra due secoli circa?Se adottiamo il tasso di sconto proposto dalla SternReview, la risposta sarebbe la seguente: dovremmo pagare fino al 56% dei consumi annuali a livello mondiale per eliminare quella piega. In altri termini, adottando la logica di scontare il meno possibile, sarebbe necessario un consumo oggi di circa 30.000 miliardi di dollari per correggere un piccolo problema che avrà effetto tra due secoli.
Questo esempio dimostra perché le implicazioni della scelta di un tasso di sconto vicino allo zero – scelta basata sull’idea che la generazione attuale sia eticamente obbligata a compiere oggi grandi sacrifici per prevenire danni climatici relativamente limitati alle ricche generazioni future – potrebbero essere davvero stravaganti.La logica che sta alla base della scelta del tasso di sconto non deve peraltro essere quella di consumare tutto il nostro reddito, come fanno gli Stati Uniti oggi.
Piuttosto io inviterei a considerare i numerosi investimenti ad alto rendimento che potrebbero migliorare la qualità della vita delle future generazioni a casa nostra e fuori. Tra gli investimenti possibili ci sono quelli nel nostro sistema sanitario, nelle cure contro le malattie tropicali, nell’educazione a livello mondiale, nella ricerca di base di nuove fonti di energia e tecnologie a basso consumo di combustibili fossili, nonché nelle infrastrutture in paesi martoriati dalla guerra come l’Afghanistan. È difficile sostenere una tesi secondo cui cambiamenti relativamente ridotti nei consumi dopo il 2200 dovrebbero avere una priorità rispetto a queste pressanti necessità attuali.*3
La maggior incertezza relativa al cambiamento climatico riguarda l’evoluzione delle tecnologie delle energie alternative che può verificarsi in un periodo di mezzo secolo e oltre. Per riuscire a rallentare o a invertire la marcia del cambiamento climatico, le nostre economie hanno bisogno di tecnologie radicalmente nuove, che siano poco costose, non dannose per l’ambiente e virtualmente neutre per quanto riguarda l’emissione di diossido di carbonio.
Dyson nota che nel mio libro ho affrontato il problema delle tecnologie del futuro in modo poco approfondito limitandomi a indicare genericamente varie possibilità. Dyson peraltro suggerisce una propria proposta risolutiva e scrive: «Io penso davvero che potremmo avere “alberi geneticamente modificati per assorbire carbonio” nell’arco di vent’anni e quasi certamente entro cinquant’anni».
Se è vero che in questo modo potremmo assorbire gran parte del diossido di carbonio, tuttavia rabbrividisco di fronte alla prospettiva di destinare vaste aree del pianeta alla crescita sovvenzionata di piantagioni di alberi. Il rischio è che un programma di riforestazione sovvenzionata cosí massiccio interesserebbe vaste aree oggi occupate da terreni agricoli, prevederebbe l’impiego di grandi quantità di acqua e fertilizzanti e determinerebbe una crisi alimentare globale su scala ancora più vasta di quella attuale causata in parte dal programma mal concepito e sovvenzionato negli Stati Uniti per produrre etanolo.
La storia del progresso tecnologico ci insegna che dovremmo evitare di mirare a una soluzione vincente nella nostra ricerca di tecnologie rivoluzionarie in campo energetico. L’invenzione radicale è fondamentalmente impraticabile. Chi avrebbe potuto prevedere le caratteristiche della moderna elettronica, delle biotecnologie o delle comunicazioni un secolo fa? Allo stesso modo è una scelta prudente quella di avere soltanto una vaga idea riguardo le tecnologie che salveranno il pianeta dai danni dovuti al cambiamento climatico tra un secolo.
Dovremmo fare a meno di credere che, per sviluppare la tecnologia chiave, sia necessario un progetto strategico sul clima come il Progetto Manhattan, che portò alla costruzione della bamba atomica. Sembra più ragionevole pensare che le nuove tecnologie amiche del clima saranno il risultato cumulativo di un gran numero di invenzioni, molte delle quali sviluppate da piccoli inventori e nate in campi diversi e non correlati.
Il modo migliore per incoraggiare il processo in grado di portare all’invenzione risolutiva è assicurare un ambiente economico che sostenga l’innovazione e l’imprenditorialità. I governi dovrebbero creare le condizioni perché vi sia un campo d’azione equilibrato tra le diverse tecnologie in modo che nessuna riceva un trattamento di favore mediante sovvenzioni, regolamentazioni o la protezione della proprietà intellettuale.
Il cambiamento climatico è un fenomeno complesso, caratterizzato da una notevole incertezza e dal mutare quasi quotidiano delle nostre conoscenze. A breve termine è poco probabile che il cambiamento climatico si riveli catastrofico, tuttavia questo fenomeno ha la potenzialità di provocare gravi danni a lungo termine. Esistono numerosi sostegni economici alla progettazione di un approccio efficiente in grado di rallentare il riscaldamento globale e assicurare che l’ambiente economico sia favorevole all’innovazione.
L’approccio internazionale del Protocollo di Kyoto attualmente in vigore risulterà molto costoso in termini economici e virtualmente non avrà alcun impatto sul cambiamento climatico. A mio parere l’approccio migliore è quello relativamente più semplice: imporre tasse sulle emissioni di diossido di carbonio modulate a livello internazionale. Gli economisti e gli ambientalisti continueranno senz’altro a discutere il giusto prezzo del carbonio, ma chiunque riconosca che siamo di fronte a un problema globale serio sarà anche d’accordo sul fatto che il prezzo attuale (cioè zero) sia troppo basso e debba perciò essere prontamente corretto.
William D. Nordhaus
All’editore: Come autore, insieme ad altri, della Stern Review on the Economics of Climate Change, devo rispondere alla recensione fuorviante di Freeman Dyson dell’ultimo libro di William Nordhaus contenuta nell’articolo “Il problema del riscaldamento globale”. La valutazione in termini economici degli effetti dei gas serra sulle emissioni di diossido di carbonio è basata (1) sugli eventi attesi prodotti dall’innalzamento delle temperature globali, come inondazioni, carestie, migrazioni e conflitti e (2) sull’importanza che si deve attribuire a questi eventi oggi e nel futuro.
Dyson sbaglia nel riconoscere i difetti dell’approccio di Nordhaus su entrambi i fattori indicati, approccio che per questo motivo propone di ridurre le emissioni di diossido di carbonio meno radicalmente di quanto prospettato nella Stern Review.
Per quanto riguarda il primo fattore, Nordhaus sottostima pesantemente la minaccia rappresentata dal riscaldamento globale. In un paragrafo che lascia alquanto perplessi, Dyson scrive: «Il libro [A Question of Balance] non si occupa … della scienza del riscaldamento globale o della stima dei danni che questo fenomeno potrebbe causare … Le conclusioni di Nordhaus sono dunque del tutto indipendenti dai dettagli scientifici».
Questa osservazione è grossolanamente sviante. Il modello di Nordhaus è il frutto dell’opinione che lo stesso Nordhaus ha della scienza. Il problema è il fatto che le sue previsioni non sembrano in linea con alcun tipo di analisi scientifica. Nordhaus dichiara, sorprendentemente, che con una crescita incontrollata delle emissioni di diossido di carbonio, il mondo raggiungerà nel 2100 lo stesso livello di ricchezza che avrebbe raggiunto, senza il problema del riscaldamento globale, nel 2099, un “ridicolo” 2,5 per cento di differenza nel Prodotto Interno Lordo.
Il più recente rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) indica invece l’esistenza di rischi significativi se le temperature globali, senza alcun intervento da parte nostra per frenare le emissioni di diossido di carbonio, salissero di oltre 5°C rispetto all’età preindustriale entro il prossimo secolo. L’ultima volta che il nostro pianeta è stato globalmente caratterizzato da temperature di 5°C superiori alle attuali è stata 35-55 milioni di anni fa, quando ovunque c’erano foreste pluviali e paludi, e i coccodrilli vivevano al Polo Nord.
L’ultima volta che il nostro pianeta è stato caratterizzato da temperature di 5°C inferiori alle attuali è stata durante l’ultima Glaciazione, circa 10-12.000 anni fa, quando gigantesche coltri glaciali si sviluppavano verso sud fino a raggiungere l’attuale città di New York e l’Inghilterra centrale. Qui però non parliamo di ghiacciai e coccodrilli. Si tratta infatti di ridisegnare con una velocità mai vista prima la geografia di come e dove la gente vive.
Se le temperature dovessero aumentare di 4°C o più nel prossimo secolo, il livello del PIL probabilmente ritornerebbe indietro di decenni, non di anni, e miliardi di persone soffrirebbero a causa della fame, della scarsità di acqua, delle migrazioni di massa e dei conflitti.Tuttavia Nordhaus riesce in qualche modo a dedurre, partendo dall’innalzamento di temperatura indicato dall’IPCC di 3°C entro il 2100 e di 5,3°C entro il 2200, che l’impatto sarà rispettivamente di un paio di punti percentuali e dell’8 per cento.
Nordhaus con disinvoltura nota che «i sottomodelli usati nel DICE non possono riprodurre i dettagli a livello regionale, industriale e temporale generati da altri modelli più grandi e specializzati», ma è proprio a livello regionale che si deve stimare il vero danno all’umanità. Nel libro si fa qualche accenno agli uragani, ma i termini “inondazioni” e “carestie”, cause principali della sofferenza umana e ambientale, vengono a malapena citati.
Nordhaus sistematicamente sottostima i rischi regionali e locali e attribuisce a questi fattori impatti economici molto limitati: perfino nel 2200 il PIL mondiale dovrebbe essere equivalente a quello di quattro anni prima, rispetto all’andamento fondamentale previsto nel caso in cui non si abbiano cambiamenti climatici.
Riguardo al secondo fattore, Dyson considera fondamentale la necessità di valutare l’insieme degli eventi attesi per il futuro e risultanti dall’innalzamento delle temperature globali quando si stabiliscono scelte politiche. Correttamente, riconosce poi la scelta del tasso di sconto come fattore cruciale della questione. Applicare uno “sconto” ai consumi significa definire il valore attuale che una certa unità di consumo avrà in una qualche data nel futuro. La riduzione del valore dell’unità di consumo da un anno all’altro viene determinata applicando il giusto “tasto di sconto” annuale.
Da un punto di vista personale tutti preferiamo guadagnare oggi piuttosto che domani e, a un certo punto, ci aspettiamo di morire e dunque di subire un pesante “sconto” nel futuro. Ma dal punto di vista della società, il problema di come i politici dovrebbero valutare le conseguenze delle azioni attuali sulle future generazioni richiede di superare l’impazienza innata dei singoli individui.
Tradizionalmente, esistono due ragioni per cui economisti e filosofi applicano un tasso di sconto al reddito futuro della società. Dyson indica correttamente la prima e più importante ragione e scrive: «I costi futuri vengono ricalcolati in base al tasso di sconto scelto perché il mondo del futuro sarà più ricco e più preparato ad affrontarli. I futuri ricavi vengono ricalcolati perché rappresenteranno una frazione sempre minore del benessere futuro».
La perdita di “felicità” causata da un dollaro in meno che entra (per esempio a causa di una ridotta disponibilità dell’acqua o per la sommersione delle coste) sarà, in generale, minore per la gente ricca piuttosto che per chi fa fatica a sbarcare il lunario. L’intuizione è semplice da capire: la “felicità” perduta corrispondente al valore di un dollaro e determinata da una riduzione dei consumi per Bill Gates sarà meno grave della stessa perdita per un bimbo di strada affamato, per il quale potrebbe rappresentare la differenza tra la vita e la morte.
Di conseguenza, se le future generazioni saranno più ricche, intraprendere ora iniziative per salvare le prossime generazioni da impatti sgradevoli richiederà un minor investimento delle attuali risorse rispetto a quanto richiesto per intraprendere ora azioni volte a evitare esattamente le stesse conseguenze sulla gente più povera di oggi. Per questo motivo abbiamo bisogno di “scontare” gli impatti futuri nella nostra valutazione del “valore attuale” dei danni dovuti al cambiamento climatico.
Ciò che Nordhaus sembra dimenticare, tuttavia, è il fatto che, in base a quanto dicono gli scienziati, le conseguenze particolarmente distruttive, come le inondazioni su larga scala, la siccità diffusa e le violente perturbazioni, potrebbero rendere alcune delle generazioni future più povere rispetto alle generazioni attuali, cancellando i benefici della crescita economica: per considerare questo effetto, bisognerebbe compiere uno sconto in negativo.
La scelta, in questo caso, è tra percorsi incerti con implicazioni radicalmente diverse per il pianeta. Tuttavia Nordhaus sbaglia e sceglie di applicare lo stesso elevato tasso di sconto del 5,5 per cento senza tener conto del fatto che si possano verificare perdite banali ma anche devastanti sottostimando dunque sistematicamente le ultime.Il tasso di sconto proposto da Nordhaus è talmente alto che la perdita di valore di un dollaro dovuta al calo dei consumi viene valutata per il 2150 vicina allo 0,02 per cento del valore attuale, senza tener conto della possibile dimensione della catastrofe.
Minimizzando le perdite future in questo modo, Nordhaus determina in anticipo la sua proposta politica di un’azione più limitata e di un prezzo più basso per le emissioni di diossido di carbonio.Il non considerare sistematicamente la riduzione della “felicità” extra per ogni dollaro mette inoltre in luce le debolezze della valutazione dei rischi compiuta da Nordhaus. Noi attribuiamo un peso maggiore alle conseguenze peggiori proprio perché ci preoccupiamo maggiormente a causa degli eventi estremi più gravi.
La nostra paura degli eventi catastrofici capaci di renderci più poveri spiega perché la maggior parte di noi assicura la propria casa, anche se sappiamo che le compagnie di assicurazione si arricchiscono grazie alle polizze che ci difendono dai vari rischi prospettatici. Attribuendo un peso maggiore agli eventi più gravi (cioè abbassando il tasso di sconto), l’approccio di Stern tiene automaticamente conto di questo aspetto; Nordhaus non lo fa.Dyson scrive: «Stern rifiuta l’idea di ricalcolare i costi e i ricavi futuri comparandoli con quelli attuali».
Ma si tratta di un’affermazione chiaramente errata. La Stern Review basa la scelta del tasso di sconto esattamente sul principio per cui le future generazioni potranno essere più ricche ma anche più povere, come sottolineato sopra. Di fatto la Review è andata oltre applicando uno sconto aggiuntivo per coprire i rischi estremi come nel caso in cui il mondo venisse devastato dall’impatto di asteroidi, dalla peste o da un “Armageddon nucleare”.
Se non è possibile garantire l’esistenza delle generazioni future, sembra inopportuno considerarle sullo stesso piano rispetto all’attuale generazione, che invece chiaramente esiste.
Ciò che la Review rifiuta è lo sconto aggiuntivo che deriva dal discriminare le future generazioni semplicemente sulla base della loro data di nascita, un processo indicato come pure time discounting (tasso di preferenza temporale puro, ovvero “impazienza”). Questo è il secondo motivo che giustifica la scelta del tasso di sconto: il passaggio del tempo in sé. In questo caso il tasso di sconto è diverso da quello che tiene conto della differenza delle entrate o da quello che considera il rischio di una futura estinzione, due fattori espressi quantitativamente nella SternReview.
Il pure time discounting è invece radicato nel desiderio dell’economista di riflettere le preferenze delle persone e la gente appare in effetti impaziente in molte delle cose che fa. Ma il cambiamento climatico è un problema sociale talmente a lungo termine da rendere inappropriata l’adozione di simili preferenze personali per determinare una scelta politica. Perché dovremmo considerare sulla stessa base il benessere delle attuali generazioni applicando però un trattamento diverso al benessere delle generazioni nate l’anno prossimo o l’anno dopo ancora?
Dyson è ancora più impreciso quando scrive: «Nordhaus, che segue … l’abitudine adottata da economisti e dirigenti di impresa, considera questa correzione dei costi necessaria per ottenere un qualunque bilancio logico tra il presente e il futuro. Nell’idea di Stern questa operazione è eticamente scorretta perché discrimina tra le generazioni attuali e quelle future. Stern cioè ritiene che un simile approccio imporrà pesi eccessivi alle generazioni future».
Qui si afferma non soltanto che Stern sbaglia a scegliere il tasso di sconto, che è falso, ma anche che egli unilateralmente si allontana dal normale approccio degli economisti.Per essere chiari, Nordhaus propone una discriminazione puramente basata sul tempo, in parte perché assume che i tassi di rendita stabiliti dal mercato rivelino una preferenza sociale per i premi futuri piuttosto che attuali.
Un secolo di letteratura economica tradizionale, da Marshall e Pigou a Arrow e Mirrlees, ha ormai riconosciuto che questo nesso logico è errato, tranne che in circostanze poco plausibili (a esempio quando i mercati siano perfettamente concorrenziali e tutti i consumatori siano rappresentati). Altri economisti, da Ramsey a Solow, Keynes e Sen rifiutano l’applicazione del tasso di sconto basata esclusivamente sul tempo in quanto arbitraria, priva di fondamenti etici indispensabili nelle scelte politiche a lungo termine. È dunque Nordhaus che si allontana dalla “normale abitudine” che caratterizza i più rinomati economisti e filosofi, e non Stern.
Infine se decidessimo di investire convenzionalmente ai tassi di mercato e più tardi cercassimo di limitare i futuri danni ambientali, i costi dell’azione sarebbero saliti fortemente perché l’accumulo di gas serra – basato sulle attuali stime dell’IPCC – sarebbe tale da poter ribaltare il clima globale causando cambiamenti pericolosi e irreversibili.
Allo stesso modo i consumatori attribuirebbero un valore più alto all’ambiente e di conseguenza risarcirli per un dato deterioramento climatico sarebbe molto più costoso di quanto sia oggi. I tentativi volti a quantificare l’azione di contrasto del cambiamento climatico devono riflettere tutto il complesso dei rischi cosí come viene indicato dalle ultime conoscenze scientifiche e adottare le scelte in campo economico che rispecchino in modo concreto questi rischi.
Le generazioni future non si meritano niente di meno. Gli approcci adottati nell’articolo di Dyson e nel libro di Nordhaus sfortunatamente non raggiungono questo fondamentale obiettivo.Dimitri ZenghelisSenior Visiting Fellow della London School of EconomicsAssociate Fellow del Royal Institute of International Affairs, Londra, InghilterraAll’editore:L’eccellente recensione di Freeman Dyson dei libri di William Nordhaus e di Ernesto Zedillo sul riscaldamento globale rimprovera gli autori perché non indicano i metodi low-cost backstop come valide scelte per affrontare il problema del clima.
Dyson dimostra con eleganza che lo sviluppo dovuto all’ingegneria genetica di «alberi che assorbono carbonio» con la capacità di «trasformare gran parte del carbonio sottratto all’atmosfera in qualche composto chimicamente stabile e trasferirlo in profondità sottoterra» pone nelle nostre mani il destino nell’atmosfera di questo gas serra. Per Dyson è probabile che la comparsa di questo tipo di vegetazione mangia-carbonio si verifichi nei prossimi vent’anni e certamente entro i prossimi cinquant’anni, un periodo di tempo che dovrebbe permettere alle nostre conoscenze del genoma delle piante di essere sufficientemente avanzate da consentirci di controllare i processi biochimici dei vegetali.
Tuttavia mi permetto di sottolineare che non abbiamo bisogno di attendere neppure vent’anni per utilizzare la vegetazione “mangia-carbonio” come strumento per limitare il riscaldamento globale. Oggi siamo già in possesso delle necessarie biotecnologie (si veda, a esempio, Jeffrey F. Parr e L.A. Sullivan, “Soil Carbon Sequestration in Phytoliths”, Soil Biology and Biochemistry, vol. 37, 2005, pp. 117-24).
Le comunità vegetali naturali hanno per millenni sottratto in piena sicurezza centinaia di milioni di tonnellate di diossido di carbonio dall’atmosfera, intrappolando ogni anno il carbonio in microscopiche sferette di silice contenute nelle loro foglie. Queste sferette di silice delle piante – chiamate fitoliti, cioè “pietre vegetali” – hanno una notevole resistenza e si mantengono inalterate a lungo dopo che gli altri composti di carbonio presenti nei vegetali sono stati decomposti e sono già ritornati nell’atmosfera. Di conseguenza il carbonio intrappolato in questi fitoliti è estremamente resistente alla decomposizione.
Molti dei vegetali che coltiviamo nei campi (a esempio piante erbacee come grano e canna da zucchero) hanno una capacità di inglobare carbonio molto maggiore rispetto a quella di molte comunità vegetali naturali simili (si veda, a esempio, ). Questo particolare offre all’agricoltura la capacità potenziale di svolgere un ruolo importante nel controllo dell’immissione di composti di carbonio nell’atmosfera.
Inoltre, tra le diverse varietà di una stessa specie coltivata, si osservano importanti variazioni nella capacità di sequestrare il carbonio in sferette di silice, di conseguenza l’adozione di queste soluzioni biotecnologiche davvero a basso costo richiederebbe di compiere soltanto minimi cambiamenti all’attuale utilizzo dei terreni. Ne consegue, fatto assai importante, che le scelte compiute ogni giorno dagli agricoltori nei loro campi su quali piante seminare hanno, cumulativamente, un impatto considerevole sulla quantità di carbonio sequestrato senza alcun pericolo per i terreni agricoli in tutto il mondo.
In breve non è necessario attendere decenni per decifrare il genoma delle piante e sviluppare una vegetazione mangia-carbonio capace di limitare il cambiamento climatico: le nostre conoscenze attuali dell’insieme dei fenotipi delle piante sono sufficienti. In modo un po’ perverso, data la frequenza con cui in politica si parla della necessità impellente di limitare il cambiamento climatico, uno dei più grandi ostacoli che intralcia la coltivazione di vegetali mangia-carbonio è però la mancanza di iniziative strutturali nazionali e internazionali capaci di garantire incentivi ai proprietari dei terreni per selezionare e allevare una vegetazione “mangia-carbonio” più efficace.
Leigh Sullivan Director Southern Cross GeoScience, Southern Cross University, Lismore, New South Wales, Australia Freeman Dyson risponde:
A tutti gli autori: queste lettere sono un insieme rappresentativo di molte altre, alcune nettamente in disaccordo con la mia recensione, altre che esprimono consensi qualificati. Mi scuso con gli autori delle lettere che non sono state pubblicate qui. Le mie risposte sono indirizzate alle lettere pubblicate ma si adattano allo stesso modo anche alle altre. Da scienziato so che tutte le opinioni, comprese le mie, possono essere errate. Io sostengo fermamente le mie idee perché credo che siano corrette, ma non mi dichiaro certamente infallibile. Vi supplico, adottando le parole di Oliver Cromwell, di considerare che anche voi potreste sbagliare. Un principio su cui tutti dovremmo essere d’accordo è infatti l’incertezza del futuro.
A Dimitri Zenghelis: la lettera che mi scrive è una sintesi della tesi di Stern, che fondamentalmente non condivido e riguardo alla quale invito i lettori a considerare le argomentazioni dell’intervento di William Nordhaus nel numero di gennaio di questa rivista. La tesi di Stern si basa su una visione nera del futuro. Il principale motivo per cui io la penso diversamente è il fatto che nel primo decennio del XXI secolo il mondo si è irreversibilmente spostato verso un futuro di maggiore speranza. In quest’ultimo decennio la Cina e l’India hanno infatti stabilito che il denaro è più importante delle ideologie. Hanno insomma deciso di arricchirsi.
Questa decisione è simile a quella compiuta dall’Inghilterra nel XVIII secolo. Chi governava l’Inghilterra decise allora che il denaro era più importante della religione.Il background intellettuale alla base di queste decisioni è descritto in un libro, Le passioni e gli interessi, dell’economista Albert Hirschman, che è stato mio collega per anni all’Institute for Advanced Study di Princeton. Nel XVIII secolo “le passioni” erano le dottrine teologiche che nel XVII secolo guidavano le guerre di religione. Nel XXI secolo “le passioni” sono le dottrine ideologiche che nel XX secolo causavano le guerre nazionalistiche. In tutti questi secoli “gli interessi” sono il predominio del commercio e dell’industrializzazione che rendono i paesi ricchi.La scelta di diventare ricchi non ha determinato la scomparsa della povertà in Inghilterra, né comporterà che questa sparisca in Cina e in India.
Questa scelta significa però che Cina e India, come l’Inghilterra trecento anni fa, diventeranno paesi ricchi, con un’influenza dominante sul resto del mondo. L’Asia, il centro di gravità della popolazione mondiale, sarà d’ora in avanti ricca e non più povera. Questo è il motivo per cui il tasso di sconto del 4 per cento all’anno scelto da Nordhaus per l’economia mondiale nel XXI secolo appare ragionevole.La differenza tra l’idea di Lord Stern del futuro e la mia è la differenza che c’è tra passione e interesse, tra stagnazione ideologicamente imposta e libera crescita.
Lord Stern vorrebbe che ci adeguassimo alla sua passione. Io vorrei che seguissimo i nostri interessi. Non credo che la stagnazione, frutto dei costosi controlli proposti da Lord Stern per ridurre le emissioni di gas serra, abbia senso se consideriamo l’economia o anche se consideriamo la climatologia. Nelle società umane proprio come nei climi, i periodi di stagnazione si sono sempre alternati a periodi di drastici cambiamenti. Un futuro caratterizzato da stagnazione permanente non è attuabile né auspicabile. La Cina ha sopportato secoli di stagnazione ed è ragionevolmente determinata a non sopportarne più. La invito a considerare con attenzione l’ultima frase del libro di Hirschman: «Probabilmente questo è tutto ciò che possiamo chiedere alla storia, e in particolare alla storia delle idee: non di risolvere i problemi, ma di innalzare il livello del dibattito».
A William Nordhaus: apprezzo che lei sia d’accordo con gran parte della mia recensione e che non abbia pensato di essere stato male interpretato. La sua principale critica, nell’ultima parte della lettera, è il fatto che io considero soltanto la crescita su larga scala degli alberi mangia-carbonio come una possibile soluzione low-cost backstop per fronteggiare i dannosi effetti del riscaldamento globale. Non è d’accordo sulle estese piantagioni di alberi perché richiedono l’uso dei terreni agricoli interferendo quindi con la produzione di cibo, oltre ad avere altri effetti ecologici indesiderabili. Ho scelto di parlare degli alberi mangia-carbonio perché si tratta di una delle possibili alternative da lei citate nel suo libro.
Ho scelto di ipotizzare che soltanto un quarto della terra destinata alla vegetazione venga occupata da varietà mangia-carbonio della stessa specie in modo che la sostituzione si possa compiere senza toccare terreni agricoli o foreste commercialmente di valore. La vegetazione sostituita potrebbe essere rappresentata da boscaglie e terreni agricoli abbandonati e non utilizzati in questo momento per produrre cibo o legname. Ho anche sottolineato che le specie mangia-carbonio dovrebbero rispettare la stessa varietà ecologica e costituire lo stesso ambiente selvatico formato dalle piante sostituite. Non dovrebbe dunque ripetersi il caso delle piante di granoturco convertite dalla produzione di cibo a quella di etanolo in seguito allo stanziamento di sussidi governativi che lei, a ragione, giudica negativamente.
Due possibili proposte low-cost backstops di cui non ho parlato nella mia recensione, dato che non erano state citate neppure nel suo libro, sono rappresentate dal fitoplancton mangia-carbonio degli oceani o dall’aumentare la quantità di neve (o snow dumping) nell’Antartide orientale. Entrambe queste proposte potrebbero essere alternative preferibili rispetto agli alberi mangia-carbonio. Fitoplancton è il nome tecnico con cui si indicano le microscopiche piante che vivono nello strato superficiale degli oceani illuminato dal sole. Il fitoplancton mangia-carbonio si potrebbe ottenere grazie all’ingegneria genetica per sequestrare diossido di carbonio negli oceani e trasformare il carbonio in pallottole che sprofonderebbero sui fondali e lí rimarrebbero.
Si eliminerebbe cosí il diossido di carbonio negli oceani e questo verrebbe poi rimpiazzato dallo stesso gas sottratto questa volta dall’atmosfera. Il fitoplancton prodotto grazie all’ingegneria genetica dovrebbe essere meno costoso e politicamente più accettabile rispetto agli alberi con genoma modificato. Il fitoplancton geneticamente modificato potrebbe anche essere utile per altri due motivi: può infatti incrementare la popolazione ittica di interesse commerciale, nonché ridurre l’acidità degli oceani.
Aumentare la quantità di neve nell’Antartide orientale potrebbe invece essere un mezzo valido per impedire l’innalzamento del livello dei mari. Il livello dei mari è salito ininterrottamente a partire dall’ultima glaciazione, circa 12.000 anni fa. La maggior parte dell’innalzamento non ha nulla a che fare con le attività umane degli ultimi due secoli. Un innalzamento di 15 m sarebbe il risultato del completo scioglimento dei ghiacci nella Groenlandia e nell’Antartide occidentale dovuto al riscaldamento globale.
Questo scioglimento completo è improbabile ma non impossibile. Per fortuna la parte orientale dell’Antartide è più fredda e più estesa della Groenlandia e dell’Antartide occidentale e la calotta glaciale dell’Antartide orientale non rischia dunque di sciogliersi. Un’area permanente di alta pressione (anticiclonica) sull’Antartide orientale mantiene l’aria al di sopra del continente asciutta e le precipitazioni scarse.
Lo stesso anticiclone determina la formazione di forti correnti occidentali di aria umida che circolano intorno all’oceano meridionale.Per aumentare la quantità di neve accumulata nella parte orientale dell’Antartide bisognerebbe spostare l’area anticiclonica dalla parte centrale a quella marginale del continente. Questo spostamento si potrebbe determinare schierando un vasto numero di aquiloni o palloni legati tra loro in modo da bloccare il flusso occidentale su un solo lato del continente. Il blocco determinerebbe un innalzamento locale della pressione atmosferica. Il centro dell’anticiclone si sposterebbe allora verso il blocco e una parte dei venti occidentali circolanti sul lato opposto dell’Antartide si sposterebbe dall’oceano verso il continente.
Gli aquiloni o palloni si potrebbero anche usare per generare quantità molto ingenti di energia elettrica da impiegare in altri progetti di ingegneria su scala planetaria. Con o senza generatori elettrici, il flusso di aria umida proveniente dalla costa con una velocità di alcuni kilometri all’ora produrrebbe una media delle precipitazioni corrispondente alla formazione di qualche metro di ghiaccio sull’Antartide orientale.
Tutto il ghiaccio aggiunto al continente verrebbe sottratto agli oceani. Si avrebbe insomma una quantità di precipitazioni nevose sufficiente per bilanciare l’innalzamento del livello dei mari prodotto dal completo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia e dell’Antartide occidentale in due secoli. Anno dopo anno, potremmo alzare o abbassare gli aquiloni e regolare il flusso di aria umida attraverso il continente in modo da mantenere il livello del mare sempre costante.Il fitoplancton mangia-carbonio e l’aumento della quantità di neve in Antartide sono due progetti fantasiosi.
Come altri sogni ingegneristici del passato probabilmente verranno superati da idee migliori e da tecnologie nuove molto prima di diventare necessari. Si tratta però di due esempi del principio generale per cui gli antidoti anche alle peggiori conseguenze del cambiamento climatico saranno presto disponibili se permetteremo all’economia di continuare a crescere. Il futuro della tecnologia a cinquant’anni da oggi è del tutto imprevedibile. Questo è un altro dei buoni motivi per cui ha senso applicare il tasso di sconto del 4 per cento all’anno da lei suggerito ai costi dei disastri futuri.
A Leigh Sullivan: sono davvero felice del fatto che le piante mangia-carbonio esistano già e non debbano essere inventate. Ma nella sua lettera o negli articoli da lei citati non viene specificato quanto carbonio queste piante sono in grado di sottrarre all’atmosfera. La questione fondamentale è infatti di tipo quantitativo. Le comunità naturali di piante sequestrano soltanto una piccola parte del carbonio che assorbono. Ho conoscenze limitate in campo agricolo o della fisiologia delle piante, ma credo che in questo rapporto le migliori piante mangia-carbonio siano in perdita di un fattore pari almeno a dieci.
Se questa mia idea è corretta allora è necessario che l’ingegneria genetica si dia un gran da fare per riuscire ad avere piante mangia-carbonio in grado di sequestrare il diossido di carbonio in quantità tali da controbilanciare l’impiego dei combustibili fossili. Lo stesso appunto si estende anche al fitoplancton mangia-carbonio. Per controbilanciare l’uso dei combustibili fossili anche il fitoplancton dovrebbe infatti sequestrare una parte preponderante del carbonio che riesce ad assorbire.
A tutti gli autori e ai lettori: vi ringrazio per avermi concesso questa opportunità di discutere i problemi dell’inquinamento globale senza polemiche e accuse. Ritengo che per raggiungere soluzioni plausibili dei problemi tutte le opinioni vadano ascoltate e tutti i partecipanti al dibattito debbano essere trattati con rispetto.
Il problema della scelta del tasso di sconto è approfondito estesamente nel nono capitolo del mio libro, A Question of Balance (Yale University Press, 2008). Questo capitolo è anche disponibile in rete all’indirizzo: . . 5,5 per cento è il valore calcolato ufficialmente da Nordhaus nel suo modello per i prossimi 50 anni.
Egli inoltre sostiene di essere convinto che si possa applicare un tasso di sconto medio del 4 per cento nel prossimo secolo, ma non chiarisce come arriva a questa valutazione, che dovrebbe presumibilmente essere il frutto dell’applicazione di un tasso un po’ più basso – indicativamente intorno al 2,5 per cento – per la seconda metà del secolo.
Perfino con un tasso di sconto permanente del 4 per cento, la rendita di una persona nella metà del prossimo secolo corrisponderebbe a circa 1/40 di quella di una persona oggi, favorendo cosí scelte politiche che portano benefici alle nuove generazioni a spese di quelle future.
Tecnicamente Stern e Nordhaus usano entrambi il cosiddetto modello di Ramsey per scomporre il tasso di sconto. La differenza sta nel fatto che Stern stabilisce il proprio tasso di sconto considerando princípi fondamentali per giungere a un tasso di sconto complessivo.
Nordhaus adotta la tecnica esattamente opposta. Parte con la risposta – 5,5 per cento dedotto dall’andamento dei mercati – e torna indietro per dare un nome ai vari termini dell’equazione e “giustificare” il numero indicato. Questa tecnica si può adottare soltanto applicando un elevato pure time discounting dato che i termini legati alle entrate differenziali da soli non lo porterebbero a un valore di 5,5 per cento sulla base di una logica plausibile. . Di fatto i mercati finanziari sono pieni di deformazioni.
Cameron Hepburn, nel suo “Discounting Climate Change Damages: Working Note for the Stern Review” (Oxford University, 2006), e Simon Dietz, Cameron Hepburn, Nicholas Stern, in “Economics, Ethics, and Climate Change” (London School of Economics, 2007), ammettono che è difficile trovare un qualsiasi mercato che possa dare chiare risposte alla domanda: in che modo noi, come generazione, valutiamo i vantaggi derivati dall’azione collettiva volta a proteggere il clima per generazioni che esisteranno tra un centinaio di anni o più da oggi? Per un’analisi più dettagliata, il lettore può fare riferimento alla recente Ely Lecture tenuta da Lord Stern nel gennaio del 2008 all’American Economic Association Meetings e pubblicato sull’American Economic Review, vol. 98, n. 2 (maggio 2008).
Si veda, a esempio: F. Ramsey, “A Mathematical Theory of Saving”, The Economic Journal, vol. 38, n. 152 (dicembre 1928), pp. 543-59; A. Pigou, The Economics of Welfare (Londra, Macmillan, 19324), pp. 24-25; R. Harrod, Towards a Dynamic Economics (Londra, Macmillan, 1948), pp. 37-40; R. Solow, “The Economics of Resources or the Resources of Economics”, American Economic Review, vol. 64, n. 2 (maggio 1974), pp. 1-14; J. Mirrlees e N. Stern, “Fairly Good Plans”, Journal of Economic Theory, vol. 4, n. 2 (aprile 1972), pp. 268-88; S. Anand e A. Sen, “Human Development and Economic Sustainability”, World Development, vol. 28, n. 12 (2000), pp. 2029-49.
Il professor Mohammed Dore del Climate Change Lab della Brock University, St. Catharines, Ontario, spiega questo punto brevemente in A Question of Fudge: Professor Nordhaus on Global Policy for Climate Change (in stampa) quando sottolinea che: «È strano come l’intera tradizione di Cambridge dell’economia del benessere – da Ramsay, de Graaf fino a Mirrlees – non faccia alcuna differenza per Nordhaus; egli infatti afferma che il cambiamento climatico può essere considerato la madre di tutto il bene pubblico e poi si dimentica però del bene pubblico nel proporre le proprie linee di condotta ottimali!».
Lord Stern è attualmente l’IG Patel Professor of Economics and Government alla London School of Economics, e ha alle spalle moltissimi anni di lavoro dedicati all’economia pubblica. Ha pubblicato quindici libri e un centinaio di articoli e, dal 2000 al 2003, è stato dirigente della Banca Mondiale. Di recente è stato eletto presidente della European Economic Association dagli economisti accademici d’Europa ed è consulente di un lungo elenco di capi di governo in tutto il mondo.
Si veda S. Dietz, Ch. Hope, N. Stern e D. Zenghelis, “Reflections on the Stern Review (1): A Robust Case for Strong Action to Reduce the Risks of Climate Change”, World Economics, vol. 8, n. 1
ANNA TREVES è docente di Geografia storica presso il Dipartimento di Geografia e Scienze Umane dell’Ambiente dell’Università degli Studi di Milano. Tra i suoi libri più recenti, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento (LED, 2002) ha ottenuto il premio della Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea.