L’organizzazione della ricerca scientifica in Italia soffre da molti anni del sovrapporsi di progetti di riforma dell’Università e degli enti di ricerca, tutti più o meno basati sulla convinzione che per sviluppare la ricerca in maniera efficace sia sufficiente copiare pezzi separati dell’organizzazione della ricerca di altri paesi, in particolare degli Stati Uniti, astraendo completamente dalla situazione sociale ed economica del nostro paese, dalla sua storia passata e dalla struttura della nostra scuola superiore e della nostra Università.
Gli inconvenienti di questa impostazione sono ulteriormente amplificati, nel caso del nuovo progetto di riforma delineato dal decreto Moratti, dall’assenza di informazioni sicure, rese ancora più aleatorie dalla massa di voci di corridoio, dai “si dice”, dalla ridda di promesse di finanziamenti della ricerca in aperto contrasto con la realtà dei fondi a disposizione e soprattutto dalla diffusione di documenti governativi sul riassetto della carriera dei docenti, del reclutamento dei ricercatori e dei rapporti tra Università e imprese, estremamente generici e spesso in contrasto tra di loro.
Nonostante questo stato di generale disinformazione, è possibile individuare nel decreto Moratti delle linee politiche che preoccupano seriamente il mondo dell’Università e della ricerca scientifica e che minacciano di arrecare danni irreparabili alla ricerca italiana, emarginando l’Italia dal novero dei paesi culturalmente più sviluppati.
Malgrado le generiche frasi di maniera sull’importanza della ricerca scientifica che decorano i vari documenti governativi, in particolare quello sulle “Linee Guida del Consiglio dei Ministri del 19/04/2002”, la ricerca scientifica non rappresenta in realtà una priorità importante per lo sviluppo del paese. I dati pubblicati recentemente dalla Commissione Ricerca dell’Unione Europea forniscono infatti un quadro assai deprimente della situazione italiana.
Dal documento risulta che nel 2003 in Italia i fondi per la ricerca scientifica sono diminuiti del 5,9%, scendendo al livello di 6.9 miliardi di euro, rispetto ai 16.9 della Germania, ai 12.8 della Gran Bretagna e ai 12.2 della Francia. Il Ministero del Tesoro e il MIUR continuano intanto a tagliare i fondi per la ricerca di base, arrivando addirittura a dirottare una considerevole fetta delle poche risorse disponibili su un fantasmagorico MIT italiano dalle oscure finalità e dalle ancora più oscure possibilità di realizzazione.
Nel frattempo, a causa delle serie difficoltà di bilancio delle Università i fondi del 60%, che rappresentavano la fonte principale di finanziamento della ricerca, si sono talmente ridotti che in molte sedi riescono al massimo a garantire la pura sopravvivenza dei gruppi. La situazione è altrettanto difficile per gli altri enti pubblici di ricerca, in particolare per il CNR, che si trovano ormai in una tale caotica situazione di incertezza normativa e di riorganizzazione interna da rendere problematica la giustificazione della loro stessa esistenza.
Il problema più preoccupante è che, nel nuovo progetto di riforma, la ricerca scientifica nell’Università e nei centri di ricerca è vista soprattutto in funzione del supporto che essa può offrire all’industria, in particolare alle piccole e medie imprese, e non della sua natura culturale e conoscitiva. L’importanza della ricerca scientifica del paese è quindi valutata essenzialmente in funzione del suo apporto all’attività industriale in termini di numero di brevetti prodotti e non del suo valore scientifico e dei suoi riconoscimenti internazionali.
La ricerca di base, e in particolare quella non inserita in grandi progetti nazionali su tematiche specifiche, non rappresenta pertanto una finalità culturale di interesse prioritario per il Ministero. Questa visione della ricerca si inquadra invece in uno schema di struttura dell’Università e degli enti di ricerca di tipo manageriale, nel quale le competenze scientifiche e le professionalità individuali sono incasellate in progetti organizzati dall’alto, che inevitabilmente portano a un controllo gerarchico della cultura e addormentano le libere iniziative dei singoli, base di gran parte dei salti innovativi che caratterizzano le grandi trasformazioni scientifiche.
Secondo la visione del ministro Moratti e dei suoi consulenti, la ricerca scientifica negli Stati Uniti ha raggiunto livelli di eccellenza grazie soprattutto all’esistenza di centri di ricerca e di Università private e grazie ai finanziamenti di privati alla ricerca scientifica. In questo quadro si inserisce anche la convinzione che la dinamica della ricerca negli USA sia legata al fatto che il numero di ricercatori con la tenure, cioè con il posto fisso, sia basso rispetto a quello dei ricercatori a contratto. In altre parole, più la carriera di un ricercatore è aleatoria, più si pensa che, a parità di costo, egli produrrà dal punto di vista scientifico.
Queste idee, che rivelano non solo una mentalità mercantile e utilitaristica ma anche un’errata concezione della realtà scientifica degli Stati Uniti, minacciano di minare seriamente le basi culturali del nostro sistema universitario. La convinzione che il finanziamento pubblico della ricerca scientifica debba essere condizionato dall’influenza sullo sviluppo industriale è in contrasto con la storia stessa del sistema americano della ricerca.
Al contrario, dopo la presentazione nel 1945 al Congresso degli Stati Uniti del famoso rapporto “The Endless Frontier” del fisico Vannevar Bush, molta eccellente ricerca di base è stata sviluppata in importanti laboratori industriali americani, senza relazione con le finalità applicative. Laboratori come quelli della Bell Telephone, dell’IBM, della Shell Development Company, della Dow Chemical ecc. sono noti in tutto il mondo per la quantità di ricerca di base di altissimo livello che hanno prodotto.
Con la fine degli anni Settanta, la ricerca di base sviluppata nei laboratori industriali si è fortemente ridotta, a seguito della spietata concorrenza economica con il Giappone e con gli altri paesi asiatici emergenti, per cui essa è oggi finanziata quasi esclusivamente dal governo americano. Una situazione simile si verifica per le Università private, come a esempio Harvard, nelle quali la ricerca scientifica è massivamente finanziata con i grants delle varie agenzie federali degli Stati Uniti e solo in minima parte con fondi privati.Altrettanto preoccupanti sono le proposte adombrate nel progetto che riguardano il reclutamento del personale docente e ricercatore.
Per i professori di prima e seconda fascia vengono incredibilmente rispolverate le liste di idoneità nazionale alle quali le Università possono accedere per assumere nuovi docenti. Questo sistema, nel periodo in cui è stato adottato in Italia in forma più o meno simile, ha creato danni incalcolabili alla ricerca. Le commissioni di concorso si sono trovate ad assegnare fino a quaranta o cinquanta idoneità alla volta, senza poter esprimere un giudizio comparativo sui candidati e dovendo esaminare ordini di grandezza delle decine di migliaia di pagine stampate!
Si ripropone in questo modo il sistema assurdo dei vincitori di concorso senza posto. Questo inevitabilmente porta a un abbassamento del livello scientifico degli idonei visto che si assegnano solo titoli e non si decide chi sia il più degno a ricoprire posizioni di ruolo. Dopo tutto un sigaro e un titolo di professore non si negano a nessuno! In questa linea di sottovalutazione dei meriti scientifici rientra anche la proposta di riservare il 15% del contingente di idoneità ai posti di prima fascia a professori associati con anzianità non inferiore ai 15 anni, cioè a persone che non sono riuscite in 15 anni a risultare idonee nei concorsi liberi.
Il decreto Moratti propone inoltre una pioggia di contratti di diritto privato, fino al 50% del numero dei docenti di ruolo di ogni Università, per assumere a tempo determinato professori senza concorso. Questo significa che Facoltà come quelle di legge o di ingegneria si riempiranno di professionisti e quelle di medicina di primari ospedalieri che dedicheranno un tempo trascurabile all’insegnamento e alla ricerca. L’eliminazione del tempo pieno per i docenti si inquadra perfettamente in questa visione professionistica e utilitaristica dell’Università.
Ancora più preoccupanti sono le proposte che riguardano il reclutamento dei giovani. Innanzitutto viene eliminato nelle Università l’attuale ruolo dei ricercatori, sostituito da quello di contrattisti a termine per periodi di tempo fino a dieci anni. Questa scelta sembra però ignorare le differenze che esistono tra la struttura sociale dell’Italia e quella degli Stati Uniti. La struttura sociale fortemente dinamica degli USA, associata all’esistenza di grandi laboratori di ricerca nell’industria, garantisce ai ricercatori americani un flusso continuo di scambi tra Università e industria.
In Italia una situazione di questo tipo è assolutamente irrealizzabile. La ben nota situazione di precarietà della grande industria italiana e l’assenza di una politica della ricerca scientifica, soprattutto nelle piccole e medie imprese, fanno sì che una volta trascorsi dieci anni nella filiera universitaria un ricercatore italiano abbia pochissime, per non dire nessuna, possibilità di essere assunto dall’industria. Il che non significa che le posizioni di post-doctor con contratti a termine, largamente diffuse nelle Università americane, non siano importanti.
Questo tipo di contratti è infatti estremamente utile per la maturazione scientifica dei dottorati di ricerca, purché essi siano limitati a ragionevoli periodi di tempo con rimunerazione competitiva a livello europeo. D’altra parte la legislazione attuale già prevede la possibilità di assumere giovani laureati sia con assegni di ricerca che con contratti a tempo determinato, prima che possano accedere a un posto di ricercatore.
Basterebbe rendere questi contratti appetibili dal punto di vista economico e far crescere sensibilmente il numero dei posti di ruolo di ricercatore per poter arginare quella fuga di cervelli che tanto preoccupa l’opinione pubblica e addirittura per attrarre in Italia ricercatori qualificati da altri paesi. L’eliminazione del ruolo dei ricercatori, e la conseguente estensione fino a dieci anni dei contratti a termine, farà invece aumentare il numero dei giovani che fuggono all’estero e creerà in ogni caso un esercito di precari il cui obiettivo sarà il raggiungimento del posto fisso, portando inevitabilmente alla necessità di squallide sanatorie, che tanto danno hanno arrecato nel passato alla ricerca italiana.