Quali sono le cause dello spopolamento delle Alpi? e quali le conseguenze della riduzione della popolazione in queste aree montane?
CAUSE
Lo spopolamento del settore montano è causato da numerosi fattori quali l’altimetria e le relative condizioni climatiche e pedologiche; il sovrappopolamento; l’abbandono delle attività tradizionali per via dell’insufficienza del reddito percepito a causa di un’estrema parcellizzazione dei fondi, del grave peso degli oneri tributari e della concorrenza delle economie di pianura; la mancanza di servizi, soprattutto quelli scolastici; e una legislazione nazionale che, ignorando i caratteri propri dell’ambiente alpino, imponeva norme standardizzate non adatte alla realtà del mondo della montagna.
Tutto ciò concorre a spingere gli abitanti della montagna a desiderare maggiori guadagni, prospettive di vita più allettanti, stili di vita diversi e un miglioramento della posizione sociale, concretizzando queste aspettative altrove. Di seguito sono descritte le cause principali.
ALTIMETRIA
Il fenomeno dello popolamento delle montagne non è una caratteristica dell’Italia ma dell’intero globo; particolarmente evidente è nelle montagne dell’Europa Occidentale e Meridionale perché proprio qui gli uomini si erano maggiormente insediati nel corso dei secoli. Le aree alpine e appenniniche iniziarono ad essere sempre più popolose durante il Medioevo in quanto, per via della loro altitudine, erano più sicure al passaggio dei barbari e meglio difendibili dai pirati nelle zone costiere, inoltre erano zone in cui la malaria e altre epidemie non esistevano.
Tra il 1500 e il 1900 il popolo alpino sembra essersi quasi triplicato. “La popolazione ammontava a 2,9 milioni nel 1500, 4 milioni verso il 1600, 4,4 milioni nel 1700, 5,3 milioni nel 1800 e a 7,9 milioni nel 1900”. Il XVII secolo è stato però un periodo di processi regressivi causati soprattutto “dal funesto contagio del 1630 che tante vittime ha mietuto in tutta Europa” ; infatti ampi tratti di molte valli furono completamente spopolati dalla peste.
“Le regioni di bassa altimetria (al di sotto dei 750 m.) nel 1700 avevano un tasso di crescita medio dello 0,22 % e nel 1800 dello 0,44 %, mentre i valori delle regioni più alte erano solo dello 0,15 % e dello 0,27 %, differenza che si ampliò ancor di più nel 1900” . L’altitudine sembra dunque, nel tempo, aver aumentato la sua influenza sulla crescita della popolazione. Si può quindi affermare che dal 1500 al 1900 in quasi tutte le regioni alpine, con l’eccezione di alcuni territori montani, la popolazione aumentò, soprattutto in Italia e Austria che presentarono tassi di crescita più elevati rispetto alle zone di pianura.
Un esempio della disparità di crescita tra regioni alte e basse si ha nel Delfinato, area montuosa cui faceva parte il Piemonte, oggi inserita nel dipartimento dell’Isère. “Nelle alte valli la popolazione crebbe tra il 1734 e il 1838 con un tasso annuo dello 0,35 % e iniziò poco dopo a regredire fino a arrivare a – 0,26 % tra il 1838 e il 1901, nelle basse valli il tasso fu più alto in particolare nella seconda fase, così che nel Piemonte, versante già più densamente popolato, l’intera popolazione montana aumentò leggermente fino al 1900” .
Tuttavia, anche nel caso di tassi di crescita più elevati sulle Alpi, la densità di popolazione della montagna era sempre inferiore rispetto a quelle di pianura.Il sostentamento dei popoli montani proviene da sempre da prodotti derivanti dall’agricoltura, alpicoltura e dall’allevamento; a queste risorse, che spesso erano insufficienti per la sopravvivenza della comunità, si aggiungevano i proventi di un florido artigianato ed erano integrate dai guadagni di coloro che scendevano periodicamente in pianura per lavori stagionali.
Le aree montane adatte alla coltivazione sono sempre state molto ristrette in quanto, con l’aumentare dell’altitudine, diminuisce la temperatura, aumentano le precipitazioni, formando così una stratificazione scalare della vegetazione e delle colture, e si accorcia il periodo vegetativo, fattore importante che limita il potenziale agricolo in montagna. Secondo stime di agronomi, ad esempio, “il rendimento annuale di erba diminuisce del 40% per ogni differenza altimetrica di 1000 metri, e nei campi si riduce la possibilità di fare seconde semine dopo il raccolto principale” .
I terreni coltivati quindi si restringono più si sale in altezza a causa di pendenze troppo forti, presenza di rocce, nevi e ghiacciai e si riduce il numero delle piante coltivate, in quanto ogni specie ha un limite altimetrico al di sopra del quale non è possibile la maturazione. Il limite delle colture indica anche il limite dell’insediamento umano; quindi, man mano aumenta l’altitudine, diminuiscono gli abitanti.
Altri fattori che hanno condizionato storicamente la produzione agricola delle aree montane sono la pendenza e l’esposizione, in quanto una pendenza eccessiva crea difficoltà alla coltivazione, soprattutto meccanica, facendo nascere la necessità di terrazzamenti, utili anche per evitare frane; e l’esposizione in quanto, quella ottimale è solo il versante esposto a sud, più caldo e più coltivabile.
Anche il clima incise nei secoli sull’involuzione demografica; infatti, nella seconda metà del 1500 finì il lungo optimum climatico medioevale e giunse la variazione climatica fredda detta “piccola età glaciale”. I secoli precedenti erano stati caratterizzati da temperature assai moderate che permettevano alle colture agricole e quindi all’abitato di estendersi fin sopra ai 2300 metri; molto breve era l’innevamento dei valichi, il che consentiva scambi commerciali tra i versanti e con l’oltralpe.
Il mutamento climatico segnò quindi un profondo cambiamento nell’organizzazione della vita socio-economica dell’Europa: le Alpi, con i passi innevati per la maggior parte dell’anno, diventarono una barriera nel cuore del continente e l’abbassarsi dei limiti climatici delle colture provocò nelle valli alpine gravi carestie e di conseguenza una drastica diminuzione della popolazione. La grossa mole delle montagne ha ostacolato spesso l’incontro dei popoli e di conseguenza lo scambio e la propagazione di conoscenze, creandosi così aree molto arretrate, laddove invece la conformazione della montagna lo consentiva, il passaggio delle persone e l’apertura della comunità al mondo esterno aumentarono le opportunità.
LA PRESSIONE DEMOGRAFICA
Prima del 1700 carestie e pestilenze incidevano pesantemente sulla dinamica demografica causando gravi diminuzioni della popolazione, il che, portava le famiglie a concepire numerosi figli per contrastare il fenomeno; ma l’alta mortalità infantile tendeva ad azzerare il differenziale a favore delle nascite.
Dopo la prima metà del XVIII secolo la mortalità declina avviando così una fase di sviluppo della popolazione alpina. “Con l’introduzione della coltura della patata diminuirono i picchi di alta mortalità causata da crisi di sussistenza in quanto, un fallimento del raccolto era improbabile anche in presenza di avverse condizioni meteorologiche” .
Per la prima volta la mortalità non viene più dettata esclusivamente dalla natura, ma entra nel campo di intervento dell’uomo grazie al progresso della scienza che è riuscita a sconfiggere malattie e ad attenuare la virulenza di alcune epidemie, diminuendo, di conseguenza, anche i decessi infantili.
La mortalità è più bassa nelle alte valli rispetto a quelle meno elevate, perché la purezza delle acque e le caratteristiche che l’altitudine conferisce al clima alpino, espongono la popolazione ad un rischio minore di contrarre infezioni.
“Nel 1700 si è prodotta una transizione da un regime di ‘crisi’ caratterizzata da tassi elevati di natalità e mortalità ad un regime ‘omeostatico’ a bassa pressione demografica” delineato da livelli moderati di natalità e livelli molto bassi di mortalità.
Si possono identificare come fattori che ebbero una funzione regolatrice sulla natalità: la nuzialità, le pratiche contraccettive e l’emigrazione che si diversificarono a seconda delle zone. In Austria il livello di natalità era basso a causa del modello di nuzialità basato su matrimoni tardivi e tassi di celibato alti, in Francia e nelle Alpi piemontesi i livelli di nuzialità erano elevati, i matrimoni precoci e il celibato definitivo modesto, ciò nonostante la natalità era comunque bassa per via dell’introduzione di pratiche contraccettive e della frequente emigrazione della popolazione maschile che ebbe effetti diretti sulla fecondità, quando stagionale, e sulla nuzialità, quando permanente.
Nonostante la natalità fosse piuttosto bassa spesso accadeva che le risorse disponibili fossero troppo ridotte rispetto al fabbisogno della popolazione presente perché come afferma Malthus “la popolazione cresce più rapidamente dei mezzi di sussistenza, per cui aumenta sempre più lo squilibrio tra il numero dei consumi e la quantità di risorse disponibili” creandosi così una condizione di sovrappopolamento che costringeva gli abitanti ad usare anche i terreni meno fertili, ottenendo però raccolti sempre più scarsi.
Se quindi le risorse locali non si possono più espandere ulteriormente, bisognerà rispondere al sovrappopolamento limitando la propria consistenza numerica attraverso l’emigrazione permanente. Questa fu una delle cause dello spopolamento montano: correnti migratorie si dirigono da zone economicamente deboli verso regioni capaci di offrire una buona occupazione e un più alto livello del tenore di vita.
INDUSTRIALIZZAZIONE DEL SETTORE PRIMARIO
Nella prima metà dell’Ottocento i rilievi europei erano ancora ben popolati; le risorse, anche se poche, bastavano alla sopravvivenza. Attualmente la montagna sta vivendo due sviluppi diametralmente opposti: da un lato lo spopolamento delle sue zone più periferiche e dall’altro la concentrazione della popolazione nei centri urbani dei fondovalle. I
n Italia lo spopolamento delle Alpi è iniziato verso la fine del XIX secolo. La discesa dalle montagne fu più precoce quanto più progredita era l’evoluzione economica della più vicina pianura. Fino alla prima metà del Novecento l’attività agricola di montagna ha avuto una grande importanza per il sostentamento delle popolazioni locali, anche se il sistema spesso non garantiva la sopravvivenza, come testimoniano le frequenti ondate di emigrazione verso terre più o meno lontane.
A partire dagli anni Cinquanta, il declino dell’agricoltura e del settore primario è stato costante a favore dei settori secondario e terziario, che attirarono verso la città le nuove generazioni di popolazione rurale; ciò ha provocato uno spopolamento delle valli e un abbandono delle principali attività agricole e forestali.
L’economia agricola delle pianure, grazie all’introduzione delle macchine, con le sue produzioni più abbondanti e più a buon mercato, cominciò a fare concorrenza a quella delle montagne, dove invece si acuiva lo squilibrio fra lavoro e reddito, in quanto la brevità della stagione calda e la coltivazione obbligatoriamente manuale hanno sempre imposto ritmi di lavoro ossessivi e minore resa del terreno.
In montagna la professione del contadino è praticamente scomparsa; nel tentativo di far concorrenza all’agricoltura intensiva della pianura, qualcuno ha tentato la coltivazione dei piccoli frutti (fragole e frutti di bosco) ma per essere redditizia doveva restare limitata.
Anche l’allevamento, pur utilizzando ancora la montagna per i pascoli estivi, trovava migliori condizioni in pianura ove il sistema viario consentiva lo smercio immediato del latte. Con il progressivo spopolamento delle aree alpine il numero di capi allevati nelle valli e monticati in alpeggio si è così drasticamente ridotto. I prodotti industriali delle città, grazie alla loro economicità, portavano alla decadenza l’artigianato montano facendo perdere così un’altra importante possibilità di sviluppo.
All’incertezza e precarietà del reddito si contrapponeva la sicurezza del lavoro dipendente nelle fabbriche della pianura. Lo spopolamento montano è quindi la conseguenza del passaggio dall’austera economia di sussistenza a quella di mercato. La prima era caratterizzata dalla chiusura delle comunità in piccole cellule che vivevano quasi esclusivamente della produzione famigliare a cui era giocoforza unire una drastica compressione dei consumi; la seconda invece è fondata sull’apertura a mercati vicini e lontani, sulla circolazione delle merci, sugli scambi commerciali incrementati da una larga espansione dei consumi. Si può quindi affermare che l’evoluzione economica e sociale della nostra epoca ha intaccato l’umanizzazione dei monti.
CONSEGUENZE
Lo svuotamento del territorio dalla sua popolazione è la conseguenza diretta dello spopolamento, che genera effetti negativi su ambiente, economia e cultura.Il degrado dell’ambiente e del paesaggio è l’effetto immediatamente visibile generato dalla perdita di popolazione. La cessazione dell’attività agricola e pastorale è preludio alla ricostruzione forestale in quanto causa l’abbandono di campi e pascoli che, invasi da vegetazione arbustiva anche alloctona, subiscono un inselvatichimento e un arretramento, perdendo così potenzialità produttiva.
Tutto ciò altera il paesaggio tradizionale con conseguente perdita di elementi di grande valore, diminuisce la biodiversità e determina una limitazione della fruibilità turistica del territorio. Ulteriore conseguenza è la diminuzione di sicurezza dello spazio alpino.
Aumenta infatti il rischio idro-geologico poiché vengono abbandonate le opere realizzate nel passato per la regimazione delle acque irrigue e per la messa a coltura dei pendii quali i terrazzamenti; la forza delle acque, non più moderata da queste strutture,si moltiplica divenendo così un pericoloso agente erosivo capace di causare smottamenti e frane.
Anche le opere idrauliche realizzate per la regolazione dei corsi d’acqua, come argini e canali, non vengono più manutenzionate e concorrono a causare alluvioni. Effetto dell’imboschimento è il pericolo d’incendio mentre l’inselvatichimento dei campi, comportando l’eliminazione degli sfalci, fa sì che l’erba lunga e secca permanga sul terreno non permettendo la percolazione delle acque nella falda, aumentando così il rischio di frane.
Lo spopolamento montano causa l’abbandono di interi villaggi portando alla rovina abitazioni, mulattiere e strade, frenando così lo sviluppo delle valli. Da un punto di vista economico produce un generale impoverimento privando le vallate alpine delle necessarie risorse locali di imprenditorialità e di forza-lavoro e determinando la cessazione di attività commerciali e di servizi; inoltre impoverisce il tessuto umano facendo svanire a poco a poco il senso dell’appartenenza ad una tipica identità e ai valori della cultura tradizionale.
Conseguenze delle migrazioni che hanno generato lo spopolamento sono l’invecchiamento della popolazione rimasta e la correlata drastica riduzione del tasso di natalità. L’emigrazione permanete dalle zone montane concorre, inoltre, ad incrementare la cementificazione e l’urbanizzazione delle pianure e delle città industriali.
VALORIZZAZIONE DELLE AREE MONTANE
Contrastare lo spopolamento è il primo passo per garantire il mantenimento del paesaggio, dell’identità alpina e per far uscire molte valli e versanti da questa condizione di forte disagio.
In Italia già negli anni ’20, amministratori e studiosi avevano lanciato l’allarme per quanto stava avvenendo nelle vallate alpine e per i pericoli che l’inarrestabile emorragia di uomini faceva prevedere; già sul finire del decennio, infatti, fu promossa la prima inchiesta sullo spopolamento montano. Di fronte a un fenomeno così diluito nel tempo ed esteso nello spazio, ma soprattutto così variegato nelle sue sfaccettature, è mancata in passato e forse tuttora una chiara consapevolezza dei suoi numerosi risvolti problematici, cosicché l’attenzione fattiva per farvi fronte spesso ha lasciato il posto a vuota retorica o ad un susseguirsi di interventi parziali, dettati ora da interessi politici, ora da mere logiche economiche, ora da intenti ecologici, ma raramente frutto di un’azione corale mirata a favorire lo sviluppo e insieme la tutela di un ambiente e dei suoi attori, nel rispetto della storia e cultura delle popolazioni alpine.
Bisogna quindi intervenire in modo integrato, evitando soluzioni semplicistiche o approcci mutilanti e prestando costante attenzione a chi ha saputo abitare la montagna. In questo senso un ruolo importante è rivestito dalla ricerca scientifica di Istituti dedicati alla Montagna, chiamati a fornire il necessario presupposto conoscitivo all’azione politica, la promozione di strumenti di qualità nell’istruzione e formazione della popolazione alpina e il ruolo di promozione e tutela.
Per conservare la popolazione e le culture è quindi importante attuare interventi di carattere politico, sia a livello nazionale che comunitario.
“Proprio l’intervento politico ha fatto sì che l’Austria, il paese più alpino d’Europa, abbia mantenuto la sua popolazione, con un trend di incremento positivo piuttosto che di decremento, ed è dimostrato anche in Italia che, laddove vengono effettuati interventi finanziari sostanziosi e sistematici la popolazione non è diminuita, come nelle province autonome di Trento e Bolzano” .
È quindi compito delle istituzioni politiche creare delle opportunità perché la gente di montagna rimanga in quota, ridando a queste aree, troppo a lungo trascurate dai poteri centrali degli Stati europei, potere decisionale e autonomia finanziaria e garantendole specificità ambientali e culturali. Queste sono condizioni necessarie ma non sufficienti a garantire percorsi di sostenibilità a garanzia delle valenze ambientali e culturali delle aree montane; serve quindi una “bussola” che orienti gli interventi in maniera lungimirante.
Un ruolo centrale è chiamata ad assumere la Convenzione delle Alpi, un accordo internazionale di tutela adottata dalle Alpi, sostenuto da decine di associazioni dei Paesi Alpini riunite nella Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi (CIPRA).
Questa convenzione è più di un trattato di protezione ambientale in quanto prevede anche che gli Stati realizzino programmi per lo sviluppo e l’utilizzo sostenibile delle risorse in diversi campi: dall’agricoltura all’energia, dalle foreste al turismo, con un’attenzione particolare ai trasporti.
Obiettivo della Convenzione delle Alpi è salvaguardare le comunità portatrici di quei patrimoni culturali che si stanno perdendo (come i gruppi Walser), non solo in senso conservativo ma anche propositivo. Le popolazioni alpine infatti non devono essere oggetto di tutela ma soggetti attivi per l’attuazione di uno sviluppo sostenibile; ciò consiste in un recupero del bagaglio di saperi montani, che non vanno dimenticati ma valorizzati, così che le Alpi diventino uno spazio dinamico aperto e non una “riserva di indiani” per turisti.
L’accordo è in vigore in tutti gli Stati alpini, ma mentre i nostri vicini hanno già ratificato le misure contenute nei protocolli attuativi, in Italia la legge attende ancora di essere approvata. Nel panorama internazionale viene data sempre maggior attenzione alla montagna: le Nazioni Unite, infatti, hanno dichiarato il 2002 anno internazionale della montagna, iniziativa che ha originato progetti di studio sulle condizioni dei sistemi montuosi del pianeta e di conservazione e sviluppo sostenibile delle regioni circostanti. Il rapporto mette in evidenza i pericoli che minacciano vette e valli: non solo i cambiamenti climatici, l’inquinamento e la deforestazione ma anche lo sfruttamento agricolo e minerario, l’aumento della popolazione, i conflitti armati e il turismo costituiscono serie minacce per gli ecosistemi di diverse zone montagnose.
“Le catene più a rischio sono le Alpi e l’Himalaya”. “ La degradazione degli ecosistemi montani comporta rischi non solo per i 600 milioni di abitanti che vi risiedono, ma per più della metà dell’intera popolazione mondiale, che ha nelle montagne la propria riserva di acqua. Rischi che vanno dalle riduzione delle riserve idriche, alla possibilità di disastri naturali sempre più frequenti come frane e valanghe” .
Lo spopolamento e il conseguente degrado delle aree alpine rivestono un ruolo sempre più concreto e attuale anche a livello comunitario, tanto che i rappresentanti politici dell’Unione Europea condividono l’importanza dell’inserimento della parola ‘montagna’ nel trattato dell’Unione Europea, cercando così di creare una definizione condivisibile di montagna, di promulgare specifiche direttive per queste zone, che prevedano, al di là di un puro regime di concorrenza, servizi efficienti e un sostegno economico specifico per la gente di montagna come riconoscimento dei valori e degli stili di vita dei montanari.
Dagli anni Settanta sono stati avviati numerosi esempi di cooperazioni tra Stati, Regioni o enti locali al fine di salvaguardare l’ambiente montano e i suoi abitanti; tutte queste iniziative hanno trovato una sistematizzazione all’interno dell’iniziativa comunitaria INTERREG III che armonizza le politiche settoriali dei precedenti programmi proponendo una visione globale delle problematiche di sviluppo territoriale.
L’iniziativa è suddivisa in tre settori: nell’ambito III B si inserisce il Programma Spazio Alpino che si pone l’obiettivo di sviluppare una comune strategia di sviluppo territoriale e misure concrete di cooperazione tra i paesi coinvolti. Il Programma Spazio Alpino si occupa di una superficie di 450.000 kmq, un territorio che si considera relativamente omogeneo dal punto di vista paesaggistico e delle problematiche socio-economiche e ambientali, ma che tuttavia è suddiviso amministrativamente in 7 stati (4 membri dell’UE e 3 non membri).
Il territorio è stato analizzato cercando di cogliere le molteplici valenze per individuare percorsi privilegiati verso cui indirizzare i progetti di cooperazione.
“I principali obiettivi sono quindi: considerare lo Spazio Alpino come un’unità spaziale nella rete europea di aree di sviluppo rafforzandone la competitività nel campo dell’istruzione e della formazione, con particolare riferimento alle professioni più innovative, sviluppando la forza economica di tutta l’area e rafforzando la coesione e l’identità dei popoli alpini; iniziare un processo di sviluppo territoriale sostenibile fermando l’emigrazione verso gli agglomerati urbani e lo spopolamento delle aree rurali, riducendo le disparità tra aree interne riguardo a reddito pro-capite, disoccupazione giovanile, emigrazione, livello di istruzione e rafforzando la competitività del settore turistico con strategie di sviluppo sostenibile; migliorare l’accessibilità all’interno dello Spazio alpino e verso l’esterno, con particolare riguardo ai mezzi di trasporto ecologici e alle nuove tecnologie; proteggere la ricchezza del patrimonio culturale e naturale migliorando la protezione e la gestione degli ecosistemi e dei paesaggi culturali, sostenendo la conservazione del paesaggio, il consumo di prodotti tradizionali e la loro produzione per fermare lo spopolamento, mantenendo e sviluppando le diversità culturali locali e implementando la Convenzione Europea del Paesaggio; proteggere la popolazione alpina ed i loro insediamenti dagli eventi calamitosi e tutelare le risorse naturali dall’eccessivo sfruttamento” .
Il comune intento è lo sviluppo dello Spazio Alpino ed il suo rafforzamento nel contesto della competizione e della globalizzazione; ciò viene perseguito evitando contraddizioni tra conservazione e sviluppo, ponendo quindi lo sviluppo sostenibile come principio base, coinvolgendo la popolazione locale nella realizzazione degli obiettivi, così da ottenere un vasto consenso e pubblicizzando tutte le fasi di attuazione del programma.Un esempio dell’importanza della formazione nelle zone montane si ha grazie al “Progetto Poschiavo” istituito nel 1996 in Svizzera che elabora una nuova strategia basata sull’alfabetizzazione informatica” .
Le persone che hanno fruito dei corsi non hanno solo imparato ad usare il computer ma anche a sfruttare le opportunità che la telematica offre: si spazia dalla vendita on – line di prodotti locali allo sviluppo di corsi di comunicazione.La questione della criticità della montagna viene affrontata anche dalle associazioni ambientaliste, fra tutte Legambiente cerca di richiamare l’attenzione dei cittadini, delle forze economiche e delle istituzioni sulla diminuzione della popolazione montana, organizzando la Carovana delle Alpi, un convegno che attraversa l’arco alpino italiano portando avanti la sfida della sostenibilità e qualità dell’ambiente.
Per salvare la montagna e far sì che la sostenibilità diventi una realtà non basta certo attuare convegni o stilare convenzioni, ma il processo attraverso il quale si giunge alle convenzioni, fondato sul principio della sussidiarietà, porta a una presa di coscienza che facilita l’individuazione di soluzioni comuni a problemi comuni.
Oltre 4 milioni di abitanti vivono nelle Alpi italiane: un’estesa regione in cui si concentrano enormi risorse naturali e di biodiversità, ma anche una grande potenzialità economica e produttiva. Bisogna far sì però che queste non rimangano solo delle potenzialità ma che si trasformino in realtà, quella realtà che può portare la montagna ad uscire dal torpore in cui è caduta da anni e che la riporterà ad un florido sviluppo. Per far ciò bisogna valorizzare tutte le risorse presenti: da quelle naturali a quelle umane.
L’agricoltura montana, ad esempio, non è più competitiva, però, attraverso sovvenzioni da parte delle istituzioni politico-amministrative, potrà sopravvivere e ri-acquisire economicità mediante la valorizzazione dei prodotti tipici per mezzo di marchi e etichettature, e orientarsi verso produzioni biologiche e di qualità. Mantenere viva l’agricoltura in montagna porta anche un ulteriore vantaggio: garantire la manutenzione del paesaggio culturale e la salvaguardia del territorio da eventi catastrofici in quanto gli agricoltori, attraverso la loro attività, possono essere considerati i “giardinieri del paesaggio” .
Anche l’attività pastorale si propone come strumento in grado frenare lo spopolamento e valorizzare l’ambiente montano conservando il paesaggio tradizionale, aumentando la fruibilità turistica del territorio e evitando la perdita di potenzialità produttive per prodotti tipici delle regioni montane legati all’attività zootecnica e al pascolamento, che potrebbero recuperare interessanti spazi di mercato, ad es. con formaggi tipici.
I vantaggi economici legati alla conservazione del paesaggio e dell’ambiente montano possono infatti giustificare l’attività pastorale anche là dove non trovi più un riscontro adeguato dal punto di vista della redditività delle produzioni zootecniche. È necessario mantenere le quote latte per rendere competitive le piccole aziende agricole rispetto a quelle più grosse, esonerandone, però, i piccoli produttori di latte delle zone montane quando la loro produzione lattiera costituisce la principale fonte di sussistenza e la trasformazione del latte è orientata alla fabbricazione di prodotti locali di elevato valore qualitativo. Se tutto ciò venisse condotto attraverso un marketing adeguato, cioè con un’etichettatura recante la denominazione d’origine, potrà trasformarsi in un vantaggio duraturo.
Per evitare la cessazione delle piccole imprese contadine, l’emigrazione e il conseguente spopolamento, dev’essere incrementato il sostegno strutturale all’agricoltura. La graduale scomparsa delle aziende agricole fungerebbe da catalizzatore economico negativo che potrebbe portare a un ulteriore impoverimento delle zone interessate.
La conservazione dell’agricoltura, della silvicoltura e della pastorizia in montagna è perciò essenziale e deve continuare a rappresentare uno dei pilastri fondamentali dell’intervento comunitario in queste zone. Infine, il turismo è un’altra soluzione per frenare e prevenire lo spopolamento poiché, malgrado possa innescare processi insidiosi come il turismo d’assalto, delle seconde case o creare delle contraddizioni sociali per via della soppressione dei modelli culturali autoctoni, favorisce il mantenimento degli insediamenti in quota.
In molte zone infatti il turismo rimane l’unica fonte di sostentamento per la popolazione rimasta: la tendenza all’emigrazione e all’abbandono delle attività tipiche può anche subire un’inversione di tendenza, divenendo esse stesse funzionali all’attività turistica poiché contribuiscono al mantenimento del paesaggio tradizionale.
Trasformandosi in un settore trainante, potrà essere ulteriormente ampliato e, creando nuovi posti di lavoro, farà tornare nuovamente attrattive le aree di montagna. Il rischio è però che le Alpi diventino un parco giochi per cittadini; ciò può essere evitato se i popoli montanari non perderanno la loro identità e se si svilupperà un turismo compatibile con lo sviluppo economico e con la protezione dell’ambiente, cioè un turismo sostenibile, intendendo con ciò il contenimento dei livelli di inquinamento, la difesa del territorio dai problemi di dissesto, la conservazione di attività agronomico – pastorali e la salvaguardia del patrimonio culturale e naturale: il tutto comunque orientato verso una prospettiva di crescita economica.
Sono molte le aree che hanno un potenziale di sviluppo turistico ancora inutilizzato e che possono accrescerlo, ad esempio, con la creazione di agriturismo o la risistemazione di antichi sentieri, divenendo così aree ottimali per lo sviluppo di un turismo che risponda alle diverse esigenze dei frequentatori come il turismo verde, gastronomico o sportivo.
Una soluzione omnicomprensiva per salvaguardare il paesaggio rurale ed antropico e creare nuove opportunità di sviluppo è l’istituzione di parchi: ciò permette di raggiungere un equilibrio tra salvaguardia e sviluppo sostenibile; a tal fine si cerca di contribuire alla crescita economica promuovendo attività quali l’agricoltura, la pastorizia, l’artigianato artistico e l’agriturismo, e creando di conseguenza dei posti di lavoro, proiettando così verso il futuro il mondo rurale e promovendo nello stesso tempo un turismo compatibile con l’ambiente.